Siamo tutti consapevoli del nostro impatto sulla Terra.
Nessuno (spero) si sentirebbe a proprio agio nel versare rifiuti tossici in mare.
La consapevolezza dell’ambiente che ci circonda ci porta ad adottare comportamenti virtuosi e rispettosi per l’ecosistema e per il genere umano: rispettare le regole della raccolta differenziata e regolare la temperatura di casa sono due esempi di comportamenti che abbiamo imparato ad adottare.
L’impronta del nostro passaggio, il cosiddetto carbon footprint, si sta affievolendo sempre di più, tanto per gli individui quanto per le aziende.
Ma che ne è della nostra impronta personale in un’organizzazione, soprattutto se questa organizzazione dipende da noi?
Partiamo da alcuni numeri.
Nel 2015, una ricerca dell’Università della California ha rilevato che il 72% degli imprenditori riferiva dubbi sulla propria salute mentale, mentre il 49% di essi riferiva di essere affetto da almeno un problema psicologico cronico.
Molto si è detto, anche se non abbastanza, sulle similitudini tra imprenditori e professionisti.
Il professionista, ormai, deve ragionare come un business man, facendo della sua specializzazione professionale l’hard skill che sottende alle soft skill necessarie per il buon funzionamento della sua azienda: lo studio professionale.
Un notaio deve tenere sott’occhio il controllo di gestione, un commercialista deve gestire le proprie risorse umane e un avvocato deve gestire il proprio marketing.
Cosa succede, quindi, se un professionista, o imprenditore, o chiunque si trovi in posizione apicale all’interno di un’organizzazione non tiene in considerazione l’impronta che il proprio stato mentale ha sulle altre persone che lavorano con lui?
La risposta più corretta ed esaustiva richiederebbe studi in psicologia e non è mio desiderio addentrarmi in un territorio che, per quanto mi affascini, non mi appartiene.
La riflessione che vorrei portare alla luce, però, è questa.
Nessuno è perfetto, nessuno sa ciò che sta facendo e ciascuno sta facendo del proprio meglio.
Questa frase, talmente usata da uscire stropicciata e sbiadita quando la si digiti, in realtà porta con sé un messaggio che può aiutare un team a comprendere un capo, e un capo a comprendere se stesso.
La vulnerabilità è insita nella natura umana, la perfezione no.
Riconoscere e comunicare le proprie emozioni, chiamandole con il loro nome, senza soffocarle dietro a fiumi di parole incentrate sull’accaduto piuttosto che sul percepito emotivo, permette di generare quel meccanismo di empatia funzionale al coinvolgimento delle persone che formano il gruppo.
Il capo che riesca a leggere le proprie emozioni, a mostrare la propria umana imperfezione, a prendere consapevolezza di ciò che sente, sarà in grado di comunicare meglio e di fare della sua figura non solo un capo, ma anche un leader, una persona in cui tutti i membri del team si riconoscono, perché, come dice la già citata frase, nessuno è perfetto e ciascuno sta facendo del proprio meglio.
È ancora una volta l’intelligenza emotiva, di cui l’empatia è una manifestazione, a palesare la propria importanza nella figura del leader.
Uno studio di Talent smart ha dimostrato come il 90% dei soggetti più produttivi abbia un’intelligenza emotiva particolarmente sviluppata, mentre l’80% degli individui meno produttivi abbia un quoziente di intelligenza emotiva inferiore alla media.
Il leader empatico è in grado di leggere le proprie emozioni e quelle del proprio gruppo di lavoro: è capace, cioè, di controllare la sua impronta emotiva sul team.
Per fare ciò, il leader deve imparare ad ascoltare, non per rispondere, ma per capire il messaggio che sta dietro ad ogni critica, anche a quella non costruttiva; deve imparare a interpretare il linguaggio del corpo, rispettando appieno l’importanza di ogni e ciascun membro del suo gruppo.
Come in tutte le cose, tuttavia, esiste il rovescio della medaglia.
Riconoscere le proprie emozioni ed essere autentici non può e non deve sfociare nell’arroganza della presunzione.
La presunzione di superiorità o di immunità alle conseguenze, difesa inneggiando all’autenticità, può facilmente portare ad un’escalation di permissivismo di comportamenti tossici: “so di essere una persona irascibile, non ne ho mai fatto mistero, quindi dovete capirmi quando urlo. Dopotutto, sono fatto così”.
Se è importante raggiungere la consapevolezza sui propri punti deboli, altrettanto importante è il lavoro da svolgere su se stessi per ridurre le proprie mancanze, impegnandosi attivamente per creare un ambiente di lavoro in cui chiunque si senta libero di dimostrare gioia, tristezza, paura, rabbia, disgusto. Niente che Inside Out non ci abbia insegnato, ma a cui aggiungerei la frustrazione, immancabile accessorio da scrivania di qualunque ufficio.
L’impronta emotiva di un leader all’interno di un gruppo non è mai neutrale e pensare che lo stress da perfezione non esista o non influenzi il gruppo significa non aver ancora fatto i conti con l’anima del gruppo quale entità a sé.
Ogni leader sa che deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni, non ogni leader sa che deve assumersi anche la responsabilità delle proprie emozioni, se desidera che il gruppo sviluppi tutto il proprio potenziale, in un ambiente di lavoro favorevole allo sviluppo degli esseri umani che lo popolano.