La sostenibilità. Intervista a Carlo Paris, presidente del Comitato di Sostenibilità ENAV.

Carlo Paris

Carlo Paris è una persona straordinaria, nel vero senso della parola: una persona fuori dall’ordinario.

Carlo Paris è una persona la cui preparazione e professionalità sono al di fuori del comune, che si descrive come “tendenzialmente timido”, una persona che non ha alcun timore nel mostrare di essere una persona.

Se i più giovani, al grido di “Ok, boomer”, incolpano i baby boomer per l’attuale situazione economica ed ambientale, parlando con Carlo Paris resterebbero incantati, esattamente come è successo a me.

Cos’è davvero la sostenibilità?

Sostenibilità è un invito a riconsiderare la nostra vita in modo che possa durare il più a lungo possibile, che abbia la migliore qualità possibile e che abbia un significato importante, senza lasciarsi trascinare dagli eventi.

Sostenibilità è un invito a ripensare le nostre azioni quotidiane, la nostra esistenza, in modo che possa tenersi in piedi in maniera semplice, dignitosa, naturale, compatibile con noi stessi, con la nostra anima, con i nostri affetti, con il nostro talento, con la solidarietà, con l’ambiente, con la natura, con un futuro vivibile per le prossime generazioni.

C’è un momento storico da cui è stato necessario parlare di sostenibilità?

Forse il diluvio universale è il momento in cui si è iniziato a parlare di sostenibilità perché, quando Noè si è reso conto che il pianeta non era più sostenibile, ha intrapreso il progetto di costruzione dell’arca per salvare la specie umana.

Oggi dobbiamo imitare Noè e costruire un’arca per riportare le generazioni future verso un pianeta futuro vivibile: stiamo vivendo una fase di diluvio universale. Negli ultimi cento anni abbiamo visto un’accelerazione dell’inquinamento terrestre, del consumo delle risorse naturali, del surriscaldamento della terra, con un tasso di incremento mai registrato nelle ultime migliaia di anni.

In tempi più recenti, rispetto al diluvio universale, c’è stata la Seconda Guerra Mondiale, con l’esplosione delle due bombe atomiche, che ha sancito un momento di discontinuità nella storia dell’uomo, con una pericolosa applicazione dell’energia nucleare.

L’energia nucleare può essere utile, certo, ma può andare fuori controllo, come hanno dimostrato i disastri di Fukushima e prima di allora quello di Chernobyl.

Questi eventi devono costituire un campanello di allarme, come lo devono essere la fuoriuscita di petrolio nel Golfo del Messico per la rottura delle condutture BP, che è stato uno dei più grandi disastri degli ultimi anni: per incuria, per errore umano e per la necessità di risparmiare soldi sui sistemi di sicurezza, l’uomo è in grado di costruire meccanismi che possono rovinare irreversibilmente il Pianeta.

Se, per anni, le multinazionali del petrolio, i gruppi industriali e la potenza economica che si sarebbe dovuta sviluppare hanno portato i governi a sottovalutare questo pericolo, negli ultimi anni ci siamo resi conto che questo fenomeno di deterioramento dell’ambiente in cui viviamo sta ormai procedendo in maniera quasi inarrestabile e forse abbiamo superato il punto di non ritorno.

Su base annua, consumiamo le risorse del Pianeta in un tempo sempre più ridotto, da un certo momento in poi abbiamo già terminato le risorse che in termini di sostenibilità sono disponibili: come se io dessi a mio figlio una paghetta per una settimana, lui avesse finito i soldi il martedì e fossi costretto a dargli un’altra paghetta. Questa paghetta, spesa sempre più velocemente, basta sempre meno giorni. La paghetta è costituita dalle risorse che la Terra produce nel corso dell’anno, una di queste è l’acqua piovana, l’acqua dolce.

Ci sono già stati dei segnali, come lo scioglimento dei ghiacciai, visibile sul Timelapse, messo a disposizione da Google, che mostra le immagini della Terra dal 1984 ad oggi: basta guardare le immagini per vedere la differenza enorme degli ultimi anni.

Ci sono tanti altri segnali, come la riduzione delle piogge o gli incendi indomabili in Australia, che hanno spinto i Paesi a firmare il famoso accordo di Parigi. In occasione della Giornata della Terra dovrebbe essere ribadito dai principali capi di Stato del mondo l’impegno a ridurre il surriscaldamento della Terra entro il 2050.

Tutti usano la parola sostenibilità, ma non è forse un termine abusato?

Sì, sicuramente è abusato.

È abusato per il fatto che non fa parte della nostra vita quotidiana.

Negli ultimi venti o trenta anni la parola abusata era qualità, ora se ne parla molto meno, ma dopo un periodo in cui si operava senza fare caso alla qualità, questa era diventata di moda.

Dopo qualità è diventato di moda parlare di sicurezza, ora invece tutti parlano di sostenibilità: sicuramente c’è un tema di necessità, come detto prima, ma c’è anche un tema legato alla moda.

Ci dovremmo augurare che la parola sostenibilità scompaia dalle nostre conversazioni, perché vorrà dire che sarà ormai incorporata nelle nostre giornate, come parlare di salute alimentare, di sicurezza nell’accertarsi che non arrivino auto prima di attraversare la strada.

È in atto un fenomeno commerciale, legato al mercato dei consulenti, delle aziende, della comunicazione, che ha bisogno di trovare nuovi filoni sui quali puntare per rinnovare se stesso e il parco dei propri clienti: in questo momento, il filone è quello della sostenibilità.

È però un abuso benvenuto, però, perché porta ad una situazione migliore della precedente.

Si parla di greenwashing, che nasconde un abuso del concetto di sostenibilità, fa riferimento alla  necessità mediatica, da parte delle aziende, di darsi una veste esteriore ed ufficiale di compatibilità con la sostenibilità.  Le aziende che non ne hanno la convinzione e non ne condividono i valori, per risparmiare costi nel processo di allineamento, ricorrono a dei trucchi, a dei sotterfugi, a delle scorciatoie, a delle coperture o schermature.

Non esisterebbe la parola greenwashing se non ci fosse un mercato che sta barando sul discorso della sostenibilità. Se esiste un mondo finanziario che concede finanziamenti alle realtà solo se queste sono sostenibili, allora se ne fa un abuso perché l’eccesso mediatico porta a darsi una veste di buonismo, altro concetto spesso confuso con la sostenibilità. Sostenibilità non è buonismo, ma ha a che fare con una creazione di valore: sostenibilità, dal punto di vista accademico, è la creazione di valore per tutti i portatori di interesse, gli stakeholder, nel medio lungo termine.

Non si tratta di buonismo, di filantropia, di charity, ma di avere delle realtà produttive e sociali che stiano in piedi e possano durare nel tempo, durata che fonda le sue basi in una sostenibilità finanziaria: il buono, che continua ad elargire le risorse dell’azienda in filantropia e charity, oppure che rinuncia al giusto ed equo profitto, mette a rischio il posto di lavoro di tutti i dipendenti ed il capitale dell’intera azienda, creando un danno per tutti coloro che ci lavorano, per gli azionisti, per i fornitori.

Sostenibilità è un concetto che abbraccia tutti gli aspetti di una vita aziendale o sociale, al cui interno c’è una qualità di relazioni che devono poter durare: stressare le persone provoca burnout, un esaurimento che viene poi portato nelle case, nelle famiglie, tra le coppie, tra i giovani e crea entropia.

Ultimamente c’è un proliferare di Chief Happiness Officer negli uffici. Una figura che non deve essere assimilata al clown che va in giro a far ridere i dipendenti, ma un garante del benessere delle persone. Il crack Lehman Brothers ha svelato una realtà che, in nome del profitto, si è dimenticata delle persone ed ha compromesso la durevolezza dell’azienda per esaltare i risultati finanziari.

La sostenibilità è applicabile nelle realtà piccole o ha senso parlarne solo nelle realtà più grandi?

Se vogliamo veramente raggiungere la sostenibilità come sistema, bisogna partire dalle realtà piccole.

Le realtà grandi sono arrivate a questi discorsi perché l’impatto ambientale di una società petrolifera è diverso da quello di un’officina meccanica che versa l’olio usato nel tombino ed ovviamente il mondo ha imposto sanzioni.

La sostenibilità deve invece essere una filosofia, un convincimento che deve partire dal piccolo.

I consulenti in questo hanno una responsabilità fondamentale.

I commercialisti, i legali, i revisori contabili, le società di comunicazione, i responsabili della qualità e della sicurezza, degli acquisti, della logistica e dello smaltimento degli scarti di produzione hanno la responsabilità di rivedere le piccolissime cose.

C’è stato un periodo, negli anni ’70-‘80, in cui l’industria americana era in recessione: il Giappone divenne una potenza mondiale grazie ai circoli di qualità, ripartendo dai suggerimenti dei dipendenti per cogliere i segnali di innovazione, ripartendo dal basso, dal piccolo.

Il ruolo dei consulenti è di educazione, di formazione, di sensibilizzazione e di spinta affinché tutti questi professionisti si facciano loro promotori della sostenibilità verso i loro clienti.

Le realtà piccole devono iniziare ad adeguarsi ad una rendicontazione non finanziaria, il bilancio di sostenibilità, che diventerà obbligatoria per aziende sempre più piccole. Il limite al momento è dato sì dai costi ma anche dalle sanzioni, la cui applicazione al momento non è chiara e scoraggia le dichiarazioni su base volontaria onde evitare di subirle.

Tutti coloro che sono a contatto con i clienti hanno la responsabilità di formarsi e di cambiare la loro offerta di servizi anche e soprattutto sul tema della sostenibilità.

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