Professionisti e digitalizzazione. Intervista a Claudio Rorato, responsabile scientifico e direttore dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano, senior advisor in strategia, organizzazione e digital transformation.
Claudio, parliamo ovviamente di professionisti e digitalizzazione. Come è cambiata l’importanza di questo aspetto negli anni?
L’Osservatorio ha iniziato dieci anni fa ad occuparsi di digitale, per vedere come il digitale potesse incidere sui modelli organizzativi e di business degli studi dei professionisti nel mondo delle professioni giuridiche ed economiche, cioè avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro.
Farei risalire a circa dieci anni fa la crescente importanza del digitale. Prima abbiamo assistito soprattutto alla meccanizzazione da parte di commercialisti e consulenti del lavoro di una serie di attività relative all’interfaccia con gli enti statali con cui sono abitualmente in collegamento.
Dieci anni fa o poco meno eravamo ancora agli inizi in merito alla diffusione del digitale nella gestione complessiva dello studio o, nella relazione con la clientela. Il concetto di collaboration e di integrazione digitale, non solo con la pubblica amministrazione ma anche internamente allo studio e con il cliente, era davvero terreno per pochi studi.
All’inizio dell’attività dell’Osservatorio, il suggerimento di assimilare i processi gestionali a quelli delle aziende e l’idea che gli studi e i professionisti potessero adottare comportamenti tipici di imprenditori e manager era visto con diffidenza. Oggi la cultura di base è cambiata, come pure la consapevolezza sull’impiego del digitale.
Dieci anni fa sembra ieri, sembra non sia cambiato nulla, però la mia memoria potrebbe ingannarmi nel ricordare come fosse allora la diffusione della tecnologia. Era diverso?
Secondo le statistiche di dieci anni fa sull’adozione delle tecnologie mobile, in Italia eravamo già ai vertici per l’utilizzo nel privato, ma nel settore business l’uso era sotto la media europea.
Vanno distinte la fase di consapevolezza e diffusione matura di una tecnologia dalle adozioni molto verticali.
Dieci anni fa, le tecnologie collaborative, la collaboration all’interno ed all’esterno con gli stakeholder (clienti, fornitori, banche, ecc), la diffusione e le integrazioni di processi come li conosciamo oggi erano solo un sogno per la maggior parte degli studi.
C’erano punte di diamante con un significativo gap nei confronti del resto del mercato.
Nel corso dei 10 anni si è alzato il grado di consapevolezza sulle possibilità della digitalizzazione, ma la percentuale degli studi che hanno raggiunto una maturità elevata nell’uso delle tecnologie in chiave interna ed esterna oscilla intorno al 30%.
Potremmo dire, quindi, che le punte di diamante oggi costituiscono il 30% degli studi, mentre il resto si divide in studi che stanno facendo delle cose, si pongono delle domande, sviluppano progettualità non (ancora) spinte, e una fetta di mercato prevalentemente costituita da studi che, per dimensioni e geografia, sono incollati a paradigmi sorpassati e non adeguati al contesto.
Per fare un esempio, nel mese dedicato a marketing e comunicazione, ho scritto un articolo sul sito web degli studi professionali, perché, come illustra un’infografica dell’Osservatorio, molti studi, addirittura, non hanno un sito.
Il sito web spiega parzialmente un’arretratezza culturale. Si è ancora legati per alcuni aspetti ad una cultura di prodotto e non di processo. Il sito web necessita di manutenzione, altrimenti diventa la vetrina che prende polvere, resta uguale a se stessa per due anni e diventa un boomerang. Tuttavia, il sito spesso non è visto come strumento di dialogo e interazione.
Dalle statistiche dell’Osservatorio Professionisti, meno del 50% degli studi dispone di un sito web, indipendentemente dal tipo di sito, dal suo aggiornamento e dal suo uso.
L’esempio del sito web, quindi, è un elemento che illustra come, all’interno del mondo delle professioni, il digitale sia qualcosa che viaggia a più velocità: alcune fasce di studi fanno un uso intenso di tecnologie anche evolute, mentre in altri studi l’uso della tecnologia è frammentario. Non c’è ancora una gestione a 360 gradi della digitalizzazione: né nei processi interni, né in quelli di relazione, né in quelli di erogazione dei servizi.
C’è un tema importante relativo all’erogazione dei servizi: l’adeguamento della user experience, che, anche alla luce della pandemia, va misurata con paradigmi e indicatori differenti, capendo anche cosa sia utile misurare. Di questo parleremo il primo luglio durante il convegno finale di questa edizione dell’Osservatorio Professionisti.
Quella della comunicazione è una questione delicata, perché abbiamo una realtà composta da strutture di media, piccola o micro dimensione. Se siamo in 3 o 4 all’interno dello studio, l’operatività quotidiana fagocita il 99% del tempo e dedicarsi alla gestione della comunicazione è un problema, così come lo è il budget per esternalizzare questa funzione. Diverso per gli studi più strutturati, per i quali, semmai, il problema è percepire l’utilità di gestire la comunicazione in termini ampi e continuativi.
Qual è l’impatto delle diverse tecnologie sull’organizzazione degli studi professionali?
Abbiamo classificato il processo innovativo su tre step.
Il primo step è quello della ricerca dell’efficienza. L’entry point: è introdurre l’innovazione su un terreno ben conosciuto, quello dello studio. Del proprio studio, il professionista conosce organizzazione, processi e persone; cerca, quindi, di migliorare la produttività e l’efficienza interna.
Il secondo step consiste nel trasportare i benefici generati all’interno dello studio nella relazione con i clienti.
Le tecnologie che vengono in aiuto in questa fase sono quelle a medio impatto innovativo, come il sito quando dispone di un’area per la condivisione dei documenti, che permette di erogare contemporaneamente il servizio e migliorare l’efficienza nella relazione, liberando il cliente dall’onere di recarsi fisicamente presso lo studio.
Il terzo step è un livello a cui non tutti arrivano, perché prevede una più elevata soglia di cultura digitale e la capacità di percepire l’impatto della tecnologia digitale sui processi, sulle relazioni ma, soprattutto, sulla possibilità di creare ed erogare nuovi servizi. È l’aspetto che più coinvolge le tecnologie di frontiera, quelle ad alto impatto innovativo, come la blockchain, l’intelligenza artificiale, o il machine learning, ma anche i portali di activity sharing, la cui innovatività è data dalla forte integrazione di processo, che diventa un’importante leva di fidelizzazione del cliente.
Quando il cliente condivide e integra processi produttivi con il suo partner professionale inizia ad attivare un processo virtuoso di knowledge management.
Abbiamo visto che, a mano a mano che ci si sposta verso tecnologie a più alto impatto innovativo all’interno degli studi, cresce sensibilmente la loro redditività.
Per dare qualche numero: gli studi con una prevalenza di tecnologie a basso impatto innovativo avevano una redditività positiva nel 57% dei casi; per gli studi con un’incidenza di tecnologie a elevato impatto innovativo, la redditività positiva riguardava il 70% degli studi.
La dimensione media in termini di fatturato degli studi con poca tecnologia era inferiore a 200.000 euro di fatturato. La dimensione media di quelli un po’ più digitalizzati è più del doppio, quasi 500.000 euro.
Questi dati dimostrano che la tecnologia non è un costo ma un investimento. Occorre però sottolineare anche chepensare la tecnologia da sola non basta a risolvere tutti i problemi se alla base non esiste un progetto strutturato, in grado di coinvolgere persone, processi lavorativi, tecnologie e mercato.
Il rischio, in questo caso, è di avere in garage una Ferrari ed usarla al 50%.
Il punto di partenza non è la tecnologia, ma la comprensione del percorso su cui lavorare: se uso la Ferrari sullo sterrato, percorro 100 metri e poi mi fermo.
La tecnologia è un fattore abilitante allo sviluppo del business, al contenimento dei costi ed alla difesa della marginalità, ma è una leva che bisogna saper usare e di cui occorre essere consapevoli.
Sviluppare una consapevolezza digitale è prima di tutto sviluppare una consapevolezza del sé: chi sono, dove voglio andare e cosa posso permettermi di fare.
Il knowledge management di cui hai parlato prima è un argomento su cui punto, ha a che fare con la gestione e la condivisione delle informazioni e delle attività all’interno dello studio e dall’interno verso l’esterno. Il knowledge management evita il rischio che le informazioni siano custodite nella testa di una sola persona, con tutti i rischi che questo comporta nel momento in cui questa persona non sia (più) presente all’interno dell’organizzazione.
I due grandi temi della scorsa edizione dell’Osservatorio, che risale a prima della pandemia, sono stati smart working e knowledge management.
L’attualità di questi temi si è dimostrata proprio con la pandemia.
Di smart working, definendo in modo improprio ciò che in realtà era home working se ne è parlato tanto, così come di knowledge management, che anni addietro sembrava un concetto accessibile solo agli studi con grandi possibilità economiche. La pandemia ha aperto il vaso di Pandora: chi negli anni aveva investito sulle tecnologie, sui processi e sulle persone, non ha avuto problemi a gestire il lavoro con un ufficio diffuso nelle case dei collaboratori e non più concentrato in un unico locale.
Anche Claudio Rorato, quindi, sottolinea l’importanza dell’organizzazione dello studio, dell’avere un progetto e della consapevolezza sulle persone con cui si lavora.
L’appuntamento è al Convegno dei risultati di Ricerca dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale, previsto per il primo luglio 2021 ed al quale ci si può iscrivere gratuitamente cliccando qui.
Per ascoltare l’intervista integrale rilasciata da Claudio Rorato, cerca il suo nome all’interno del canale Telegram di consulente.pro!