Di leadership femminile non si parla mai abbastanza.
Uno spunto, in questo momento storico, arriva dalla politica: il Regno Unito ha appena sepolto la regnante più longeva della sua storia, che, come ultimo atto di servizio per il proprio Paese, ha incaricato il terzo premier donna della storia della Gran Bretagna, Liz Truss. Di leadership femminile – e della differenza fra gli aggettivi femminile e femminista – si discute anche in Italia in vista delle elezioni del 25 settembre.
Quando l’argomento torna alla ribalta, mi viene sempre in mente un episodio di quando, nel 2012, mi trovavo come praticante avvocato a un’udienza nel Tribunale di Milano. Con la massima ingenuità, percorrendo uno degli immensi corridoi, osservai ad alta voce che nell’intera aula vi erano donne: donna il giudice, l’avvocato di controparte e tutti i presenti. Unica eccezione, il mio dominus. La sua risposta, ricordo, mi gelò:
“La giustizia è in mano alle donne. Ed è per questo che va tutto a rotoli”.
Chissà cosa avrebbero risposto Lidia Poet, prima avvocato donna in Italia, iscritta all’Ordine degli Avvocati nel 1883, Elisa Resignani, prima notaio donna, insediata nel 1928, o Letizia De Martino, prima magistrato donna, entrata in servizio nel 1965.
Lidia, Elisa e Letizia sono state madri metaforiche di generazioni di avvocati, notai e magistrati declinati al femminile: ancora oggi nel 2022 i termini avvocata, notaia e magistrata fanno storcere ancora il naso, osteggiati da evidente anacronismo e resistenza culturale.
Quasi 100 anni dopo l’insediamento di Elisa Resignani, la tipica struttura degli studi professionali è ancora una rappresentazione di patriarcato, uno o più uomini a capo di una pletora di donne: l’avvocato e le segretarie, il commercialista e le impiegate, il notaio e le collaboratrici.
Quei “quasi” 100 anni diventeranno un secolo tondo tra 6 anni.
Le statistiche dell’ultimo periodo, però, fanno ben sperare in un cambiamento di scenario all’insegna della leadership femminile, che veda le donne protagoniste come titolari di studio.
Guardando al mondo dei notai, oggi su circa 5.100 notai in esercizio le donne sono il 37%: una crescita consistente se guardiamo il 17% dell’inizio degli anni ‘90. Tra i notai sotto i 40 anni, poi, il 47% è donna. Un dato che ha decisamente senso, tenendo presente che negli ultimi concorsi ben il 50% dei partecipanti è donna. Inoltre, fattore importante, nell’ambito notarile la parità salariale tra uomini e donne è un dato di fatto (a differenza di quanto avviene in altri settori).
La parità salariale per gli avvocati è, invece, ancora utopica: il reddito delle donne avvocato è più basso di circa il 40% rispetto a quello dei colleghi uomini. Eppure, le donne avvocato sono sempre di più: secondo la Cassa Forense nel 2022 in Italia ci sono 115.724 avvocatesse contro 115.571 avvocati (50,03%).
E per quanto riguarda i commercialisti?
Dal 2012 – anno della mia passeggiata per i corridoi del Tribunale – a oggi, la componente femminile tra i commercialisti è aumentata, passando dal 29,5% al 33,2%. Con l’aumento delle commercialiste si sono alzati anche i salari, passati da 36.900 euro del 2011 ai 43.600 del 2021 (+1,6%) anche se il gender pay gap è ancora piuttosto consistente: nel 2021 le dottoresse commercialiste hanno registrato un reddito medio inferiore del 45,6% rispetto a quelli dei colleghi.
Alla luce di questa pink wave in arrivo negli studi professionali è lecito domandarsi cosa ne sarà della classica impostazione patriarcale degli studi professionali nel 2028.
La speranza è che le donne riescano a prendersi il posto che meritano, dando vita a studi professionali, da soliste o da associate in realtà che abbattono, anzi, non creano un soffitto di cristallo, quella famosa serie di sfortunati eventi e regole sociali inespresse che impedisce alle donne di accedere a posizioni manageriali.
Perché, le donne, manager lo sono da sempre: manager deriva dal francese “manager”, derivato a sua volta dal latino “manu agere”,ossia condurre con la mano. Si alzi in piedi chi non è mai stato condotto per mano da una madre, una nonna, una zia, una sorella, un’amica. E se manager, titolare, professionista, sono posizioni a cui si arriva, grazie a esami, concorsi e promozioni, non vi sono prove da superare per diventare leader.
Il leader è colui, o colei, che conduce le altre persone, che riesce ad avere su di loro una determinata influenza.
Quello che serve alle donne è prendersi il diritto di essere leader. Il diritto di essere a capo e di condurre un gruppo di persone, indipendentemente dal sesso, apportando tutte le qualità che lo stereotipo associa alla leadership femminile: intuito, empatia, attenzione all’altro, inclusività.
La maggior parte degli operatori negli studi professionali è donna: sono le segretarie che si prendono cura del proprio capo, che gli portano il caffè, che subiscono i suoi sfoghi, che risolvono problemi dell’ultimo minuto e riconciliano diatribe interne. Le vere leader sono le donne che nelle retrovie prendono le redini dello studio e ne diventano il collo. Proprio come diceva la madre di Toula ne Il mio grosso grasso matrimonio greco: “L’uomo è il capo, ma la donna è il collo e può farlo girare quando e come vuole!”.
Una sempre maggior consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie capacità, un apprezzamento delle proprie peculiari caratteristiche, diverse ma non meno valide di quelle maschili, potrà portare le donne a vivere appieno la propria posizione di titolari di studio, in una realtà di leadership femminile tutta nuova che sta piano, piano prendendo forma.
E staremo a vedere se davvero andrà “tutto a rotoli”.